domenica 12 marzo 2017

Gunnar Gunnarsson e il suo romanzo che ispirò "il vecchio e il mare" di Hemingway



E prima di passare in casa, strinse lo stoppino della candela tra due dita. È un atto di compassione verso la luce, non lasciare che si consumi invano.

Foto presa da http://bokmenntaborgin.is/en/

Gunnar Gunnarsson è uno degli scrittori islandesi più famosi di tutti i tempi. È nato a Fljótsdalur nel maggio del 1889, e benché abbia vissuto la maggior parte dei suoi anni nella capitale danese, durante la vecchiaia ha fatto ritorno nella sua terra natale dove ha vissuto i suoi ultimi anni di vita fino al 1975. Vanta una lunga e facoltosa carriera dedicata alla scrittura di romanzi che gli hanno anche permesso di venir nominato più volte al premio Nobel. Da giovane si rese conto che era improbabile vivere di scrittura in un paesino con poco meno di un centinaio di persone, così si trasferì in Danimarca dove dopo essersi impadronito del danese, incominciò ad utilizzarlo nelle sue opere; è per questo che una buona parte dei suoi scritti sono in danese e non in islandese. Solo nel 1939 fa ritorno in Islanda. Si trasferisce inizialmente in una fattoria per poi sistemarsi definitivamente nella capitale, dove rinuncia alla sua carriera narrativa per dedicarsi alle traduzioni in islandese dei suoi lavori compiuti negli anni passati.

Il suo lavoro più famoso, dal titolo originale in danese “Advent”, venne pubblicato per la prima volta nel 1936 in Danimarca, e si dice che ispirò Hemingway a scrivere “Il vecchio e il mare”. In Italia è arrivato solo pochi mesi fa con il titolo Il pastore d’Islanda. È infatti edito da novembre 2016 dalla casa editrice Iperborea con la traduzione di Maria Valeria D'avino, una postfazione dello scrittore islandese contemporaneo Jón Kalman Stefánsson tradotta da Silvia Cosimini, e una nota di Alessandro Zironi.
Devi sapere, caro Leó, che nemmeno il papa a Roma se la passa meglio di te e di me, o ha la coscienza più limpida.” Leó agitava la coda, disposto a credere a tutto quello che predicava il suo padrone, tanto più che ognuno di quei dogmi era accompagnato da un buon boccone.

Copertina del libro

Protagonisti di questa breve storia sono un uomo di nome Benedikt e i suoi due animali più fidati: un montone di nome Roccia e un cane di nome Leó. Sono loro che ogni anno a Dicembre lo accompagnano in giro per l’Islanda a salvare quelle bestie che altri contadini hanno dimenticato tra i paesaggi innevati e che sono destinate a morire in un gelo agonizzante. È il ventisettesimo anno di fila che compie quello che ormai per lui è diventato un vero e proprio rito al natale, ma le cose quest’anno non vanno come previsto. Infatti Benedikt si ritroverà a cercare molti più animali rispetto gli scorsi anni e camperà in una bufera di neve che gli farà perde le speranze di portare a termine il suo compito.

Chi non l’ha mai bevuto in una buca nella terra, a trenta gradi sotto zero e in mezzo a un deserto di montagne e tempesta, non sa cos’è un caffè.

Personalmente trovo “Il pastore d’Islanda” un piccolo capolavoro che supera di poco le cento pagine. I personaggi sono caratterizzati decisamente bene come poi tutti gli altri elementi di questa semplice fiaba. Anche qui, come capita quanto ci si ritrova a leggere un autore islandese o comunque proveniente del nord Europa, l’unica costante della storia è la natura. In questo caso l’inverno, tanto temuto quanto apprezzato dai personaggi della storia. Gunnarsson ci stupisce facendo comportare Roccia e Leó quasi come fossero due persone. Roccia, dal carattere distaccato e ben determinato e Leó, un eterno bambino giocherellone ma che al bisogno sa essere serio e diligente. 
Nella postfazione lo scrittore contemporaneo Jón Kalman Stefánsson ci racconta qualcosa di più su Gunnarsson e sul libro in questione. Gunnar Gunnarsson ha poco da invidiare al famoso premio Nobel per la letteratura del ’55 Halldór Laxness, conosciuto in tutta l’isola come l’autore per antonomasia. Purtroppo Gunnarsson ha fatto ritorno in Islanda solo da anziano, e forse questo suo distacco dalla sua terra natia ha fatto sì che venisse considerato più danese che islandese a livello artistico. Il punto forte di questo racconto, secondo Stefánsson è la semplicità della storia, che le ha permesso di essere accessibile a tutti, e la costante che la maggior parte dei libri di autori islandesi hanno, ovvero il rapporto tra natura e uomo. Qui l’uomo deve muoversi e ragionare di conseguenza, sottomettendosi alla natura e alle sue intemperie.

Parola di lettore.